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venerdì 14 dicembre 2012

L’eremo francescano come esperienza di fede


Ogni anno nel cammino formativo si fa un’esperienza spirituale più intensa del solito: l’eremo francescano. Esso appartiene al nostro carisma: lo stesso s. Francesco, infatti, si ritirava per periodi più o meno lunghi in luoghi di solitudine e di silenzio, per immergersi nel mistero di Dio. Francesco, il grande annunciatore del Vangelo, l’instancabile viaggiatore e predicatore della conversione all’amore del Padre, cercava e si riservava tempi di distacco per ascoltare, pregare e rispondere alla parola di Dio con la sua vita.
Anch’io ho fatto quest’esperienza nel piccolo santuario della Madonna dei Tre Fossi, sulle colline umbre. Sono stati cinque giorni intensi sia a livello spirituale che esistenziale, di fede e di fiducia vissuti nella presenza del Signore, nella solitudine e nel silenzio, insieme con tre fratelli, perché le vita contemplativa del francescano è sempre una vita di comunione concreta. Non si “esce” dal mondo, ma si “entra” nel mondo e nel suo mistero, attraverso un stare insieme davanti a Dio.
Il primo giorno è servito per una sistemazione semplice della casa e per mettersi d’accordo sui turni dei giorni seguenti. Fin dall’inizio si è deciso in maniera democratica… non da soli!
I giorni seguenti sono stati scanditi dalla preghiera liturgica, della celebrazione della Messa, dai pasti comuni e sobri, dalle preghiera personale, dalle passeggiate sulle colline immerse nel paesaggio meraviglioso dell‘Umbria. Tutto ha avuto un suo ritmo regolare, che ha favorito il cammino personale di fede con Dio. Non abbiamo fatto “esercizi spirituali” durante questo tempo, ma piuttosto un’esperienza forte con se stessi, con gli altri e con Dio. Ciascuno si trovava ad un certo punto del proprio cammino spirituale e, quindi, ha cercato di chiarire, di approfondire, di discernere, di meditare anche sulle difficoltà personali. Niente viene escluso da quest’esperienza, o meglio, tutto è compreso: le angosce, le gioie, i dubbi e le certezze. Tutto viene vissuto con maggiore intensità, ma nella fede. Non si va nella solitudine per staccarsi dalla vita e dai suoi problemi, non si cerca il silenzio per non ascoltare le inquietudini, non si medita per dimenticare la propria fragilità. Piuttosto, si percepisce tutto questo con i sensi aperti e il cuore pronto ad accogliere.
Oltre l’aspetto spirituale è stato importante anche quello umano. Nell’eremo si avverte la mancanza di stimoli esterni – fatta eccezione, naturalmente, delle voci dei fratelli e dei suoni della natura –; mancanza del sonno: son previste due alzate notturne per la preghiera e l’adorazione silenziosa; mancanza di cibo: abbiamo cucinato a turno, mangiando pasti sobrii, interrotti da un giorno di digiuno da dopo colazione fino a cena; mancanza di libri, di contatti mediatici (non c’è internet, facebook e altro); mancanza dell’ambiente familiare, mancanza di…
Eppure, questo è un tempo di grande ricchezza per colui che si lascia condurre dallo Spirito di Dio.
Si può trovare un contatto diretto con se stessi, perché le dispersioni non ci sono. Si impara a stare con sé, anche con la propria miseria. Si vive nella fiducia e nella fede semplice che Dio mi abbraccia con amore, che è veramente un Dio misericordioso. Si sta con Dio, che non è certo facile, perché è più semplice rimanere soli con sé, con le proprie preoccupazioni, i propri turbamenti e piaceri. Ma nell’eremo il Signore ti chiede se hai davvero fede in Lui, e non in un’immagine fabbricata dalle paure personali, ma un’immagine che Dio ha messo dentro di noi e che sono chiamato a scoprire: essere figlio/figlia di Lui.
Si impara a stare con i fratelli nelle cose quotidiane e banali. Si impara a vivere relazioni vere e autentiche con l’altro, a guardarlo non secondo gli schemi mentali condizionati dai soliti ritmi settimanali, ma con gli occhi della fede. Si tratta di una vera e propria sfida, perché nello spazio fisicamente limitato dell’eremo si vedono le imperfezioni, la mancanze, le debolezze dell’altro. Ma proprio qui giunge l’ora della fede, l’ora di vedere oltre ciò che manca per accogliere quel di più che c’è ma che è nascosto dal tram tram quotidiano dei giorni. I pochi momenti condivisi sono stati carichi di significato, di vita vissuta. Preparare i pasti (provando a fare un buon caffè!), lavare i piatti, fare le pulizie, scherzare, ascoltare, trovarsi in cappella per la preghiera, stare di notte davanti a Dio e per Dio: tutto è diventato un evento di comunione nella fede.
Infine, si è gustato la gioia di stare immersi nella natura, affinché possiamo entrare in comunione con lui anche per mezzo della creazione. Ciascuno ha potuto fare delle passeggiate sulle colline, contemplare la bellezza delle foglie con i colori dell’autunno, il fascino del paesaggio; ognuno di noi ha potuto ascoltare al silenzio che regna nella natura e rendere grazie per questo dono del Creatore.
Un ultimo aspetto che mi piace condividere ha un carattere più etico e caritativo. Nell’eremo si riscopre l’arte di amare e avere misericordia, con se stessi e con i fratelli. L’esperienza della solitudine, del silenzio e del nascondimento non è concepito per stare da soli e trattenere le cose e i doni ricevuti per sé, ma per condividere. La comunione con Dio, con me, con gli altri e con la natura provocano a uscire da sé, a credere che donando non si perde la vita, ma si riceve una qualità di vita “diversa”. E se proprio si perde qualcosa sono solo le paure e le resistenze personali!
Questa qualità “diversa” di vita che si può sperimentare non è fatta di grandi gesti, ma di segni piccoli e discreti: un sorriso; una parola di incoraggiamento; un servizio umile (non umiliante); un consiglio; una preghiera non solo per il vicino ma anche per quelli “lontani”: parenti, amici, persone senza speranza e senza fede; un atteggiamento di ascolto, non di pretesa né di giudizio. Insomma, gesti semplici, come può essere preparare un caffè con attenzione e amore dopo pranzo, ma che può diventare anche un’occasione di “contemplazione”, perché chi si emerge nella vita di Dio in Cristo è spinto a donare l’amore ricevuto. L’eremo diventa così anche una scuola di carità, una scuola per imparare a voler bene l’altro, senza interessi e gratuitamente.
Per questo l’esperienza dell’eremo francescano è una esperienza di fede, perché chiede capacità di ascolto e di stare davanti a Dio, il ché non è facile (come la preghiera e la contemplazione), chiede la capacità di stare da soli (una capacità che l’uomo contemporaneo ha perduto), chiede il gusto delle cose, della natura, del dono del fratello e dei beni della terra (e non un’ascesi spiritualistica e individualistica), chiede il desiderio di lasciarsi amare e amare senza ricompense, che è la mèta del cammino cristiano, specialmente per il consacrato.
Che cosa porto via dall’eremo nel cammino quotidiano della mia vocazione? Anzitutto, la consapevolezza che sono nelle mani di Dio come suo figlio e per questo libero ad amare.
A questo punto, forse non è proprio “francescano” citare una sorella carmelitana alla fine della mia testimonianza, ma Edith Stein, santa Teresa Benedetta dalla croce, sintetizza molto bene il mio vissuto quando scrive in una meditazione:
«Figlio di Dio significa mettersi nella mani di Dio, fare la volontà di Dio e non la propria, deporre nella mano di Dio tutte le preoccupazioni e le speranze, non stare più in pena per il proprio avvenire. Qui è il fondamento della libertà e della gioia dei figli di Dio posseduta da ben pochi» (E. Stein, Il mistero di Natale, in «Rivista di vita spirituale» 6/1987).
Per questo motivo auguro a tutti un Avvento ricco di attesa spirituale. La Luce della santa notte porti gioia e pace alle notti oscure della nostra vita.
 fra Frank-Ignazio